Nella Grecia che resiste

Storie dal Servizio Civile Estero

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“Ma prof, cosa sono i Caschi Bianchi?”

Aisha me lo aveva chiesto decisa, sbattendo gli occhi cigliati dall’alto dell’hijab a quadrettini, nel corridoio del nostro Doposcuola. Stavo lasciando la Caritas di Foligno per andarmene in Grecia e avevo tentato di darle una risposta intelligente per spiegarle la mia scelta ma tutto quello che mi era venuto in mente era stato uno scatto regalatami qualche giorno prima, che ritraeva una bambina giocare con la palla. Ma a me non era parsa una bimba col pallone. Era parsa piuttosto una bimba con un mondo, con delle braccia tese per poterlo abbracciare. “I Caschi bianchi sono una cosa così” avevo detto ad Aisha.

Sono passati oltre tre anni da quando sono “cascata” ad Atene e quel mondo, oggi, è diventato la mia vita. Ma più che abbracciarlo io è stato lui ad abbracciare me.

Come quando Sara – siriana – era venuta a chiedere il mio aiuto e io l’avevo raggiunta controvoglia e invece Sara voleva un diario. Voleva scriverlo per me, per raccontarmi la sua fatica, la sua storia. Io, che nessuno aveva mai scritto un diario segreto per me da bambina – figuriamoci da adulta – ero rimasta di ghiaccio. Abbracciata. O come quando Xristos, il senzatetto di Atene che avevo conosciuto sulla copertina di un giornale, mi aveva allestito un salotto nel bel mezzo del colonnato della banca ellenica, sfilandosi dal collo una piccola croce.

“È tua” mi aveva detto indicando la ‘x’ di ‘unto, scelto’ che aveva inciso per me in greco antico con un coltellino. Io l’avevo afferrata e avevo sorriso. Forse perché ognuno, quando parte, è sempre scelto e quando “casca” è sempre per una ragione. Io con Sara ero cascata. Mi ero sbagliata. Ma alla fine avevo trovato la mia.

Testo di Francesca Brufani

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