Non si può morire così.
E’ il momento della preghiera.
Per i friulani Cristian Rossi, di Feletto Umberto, e Marco Tondat, di Cordovado. E per le altre vittime dell’attentato di Dhaka (gli italiani sono Adele Puglisi, Claudia Maria D’Antona, Nadia Benedetti, Vincenzo D’Allestro, Maria Rivoli, Claudio Cappelli e Simona Monti). E per le vittime degli altri attentati, come quello di 123 morti in Iraq. Se a Udine c’è chi, musulmano, per la fine del Ramadan, si è affidato a reazioni di violenza (alla caserma Cavarzerani), altri nella stessa Udine – i musulmani del Bangladesh – si sono riuniti in preghiera perché «Allah fermi i terroristi». Basta? Ancora no. E lo spiega Caterina, una delle sorelle di Cristian. «Non abbiamo visto una ribellione, una presa di posizione dell’Islam moderato». «Speriamo in una reazione – ha aggiunto, dopo aver visto le esequie a Dacca –. Perché sono state uccise persone che portavano lavoro e stavano attente a non sfruttare i bambini». Commoventi le altre testimonianze che pubblichiamo.
Il missionario friulano svegliato nella notte: è un crescendo di violenza
Erano appena passate le due del mattino di sabato quando Claudio Modonutti (nella foto a destra) è stato svegliato dalla telefonata della sorella che dall’Italia voleva accertarsi che stesse bene. 63 anni, missionario Saveriano di Bottenicco di Moimacco, medico chirurgo, Modonutti vive e presta servizio in Bangladesh da trent’anni, da 12 nella diocesi di Dinajpur, a 350 chilometri a nord ovest di Dhaka.
«Mi sono messo subito al computer e ho cercato di farmi un’idea di quello che stava succedendo – racconta –. Le notizie sui media locali erano scarse e scarne. Solo molte ore dopo i fatti si è saputo che le forze di polizia avevano liberato tredici persone, che avevano ucciso sei terroristi, e ne avevano catturato uno. Delle venti vittime nemmeno una parola. Ho ottenuto da un confratello a Dacca alcuni dettagli sui nomi degli italiani coinvolti, tra cui ne ricordavo due, avendoli incontrati sporadicamente molti anni fa a Dhaka».
Conosceva, dunque, alcune delle vittime?
«Due di loro li avevo incontrati. Un signore friulano di nome Cristian (Rossi, ndr) e la signora Claudia (Maria D’Antona, ndr) con cui ero stato in contatto più recentemente».
Come ha vissuto quelle ore?
«Ovviamente in apprensione e nel dolore per tante vittime innocenti. Non so come trasmettere quella sensazione (o percezione)… Nella realtà che stiamo vivendo qui in Bangladesh, dall’autunno scorso quando tutto è cominciato, ci si può aspettare di tutto».
Il crescendo di tensione e violenza, purtroppo, è evidente. In che senso crede che ci si possa aspettare tutto?
«Voglio dire che c’è stata tutta una serie di uccisioni, sempre quasi rivendicate da sedicenti fondamentalisti, che hanno colpito le minoranze con una brutalità bestiale. Dopo l’episodio E di padre Parolari del Pime (Pontificio istituto missioni estere, ndr) qui a Dinajpur nel novembre scorso non c’erano più state vittime straniere. Ma si può certo dire che c’è stato un crescendo di episodi di violenza, nei confronti delle minoranze hindu (12% della popolazione), buddhisti (0.5%), cristiani (0.5%) e di alcuni bloggers e professori universitari ed intellettuali. E con quello che sta succedendo in giro per il mondo (Europa, Turchia, Medio Oriente)… sì, ci si può davvero aspettare di tutto».
Il Governo come si pone di fronte a questi fatti?
«Probabilmente come risposta alle pressioni internazionali, nel Nord ovest del paese (nella zona tra il Gange e il Bramaputra) ha messo in atto per le istituzioni straniere un piantonamento continuo da parte della polizia. Ci è stato chiesto di informare le autorità e la polizia in anticipo riguardo alle nostre uscite, così ci procurano la scorta, che a dire la verità è percepita da noi missionari come una palla al piede».
Non avete paura?
«È una bella domanda a cui non so rispondere. Certo l’attentato di Dhaka ha sconcertato tutti e ha minato quella falsa sicurezza che forse stavamo riacquistando pensando che in Bangladesh avessero smesso di colpire gli stranieri essendo dilaniati da lotte interne per noi non del tutto comprensibili. Ne eravamo così convinti che addirittura auspicavamo che la polizia ci rimuovesse i piantonamenti e la scorta. Come dicevo, noi stranieri siamo molto limitati nella possibilità di muoverci; è scoraggiata qualsiasi attività che abbia la ripetitività della consuetudine. Anche per questa ragione da novembre non vado più nei dispensari (a circa 50 km di distanza) che visitavo due volte alla settimana, e questo mi dispiace. Era l’occasione di essere visti da un medico anche per quelli che non hanno nemmeno i soldi per venire in ospedale.
Spero di poter presto riprendere se le cose si rassereneranno un po’».
Vede questa possibilità?
«Lo spero».
Come viene considerato l’estremismo islamico nel Paese?
«Il Governo nega l’esistenza del terrorismo, cercando di ricondurlo a fatti di carattere politico locale. Non so se sono sufficientemente informato, ma l’estremismo islamico non mi pare sia così chiaramente condannato nei paesi musulmani, o forse lo è solo “a denti stretti”… Il Bangladesh è un paese come gli altri. Senz’altro il peso e l’enfasi dati al terrorismo di matrice islamica qui non sono gli stessi che da noi. Tra le minoranze, già ripetutamente attaccate, tra loro sì c’è una consapevolezza in più, ma per la maggioranza della popolazione ho l’impressione che sia diverso, anche se va rilevato che episodi del recente passato hanno prodotto delle manifestazioni di dissenso e di protesta con migliaia di dimostranti».
Minoranze e stranieri sono dunque più che mai isolati…
«Posso parlare della zona dove opero, Dinajpur. È una zona “povera” nel povero Bangladesh, e i gruppi etnici che vi vivono, che annoverano molti cristiani, a stento si stanno integrando e sono oggetto di sfruttamento e di pressione dalla comunità circostante».
Ma nell’ospedale dove opera si curano tutti, cristiani e non. Questa è la dimostrazione che una convivenza è possibile. Dopo questi fatti possiamo ancora avere fiducia?
«Il St. Vincent hospital conta 100 letti e vi fanno riferimento tutti i poveri della zona – cristiani, hindu, musulmani e tribali –. Vi lavoriamo in sette medici, di cui tre cristiani, due musulmani e due hindu e accettiamo tutti i pazienti. Quasi la metà dell’attività ruota attorno alla maternità: abbiamo oltre 2.000 parti l’anno. A parte alcune precauzioni in cucina per non ferire la sensibilità dei pazienti con cibi non adatti, in ospedale non abbiamo mai avuto problemi di coesistenza tra religioni diverse e abbiamo sempre collaborato in estrema armonia. Nel paese, invece, in generale l’arroganza dei più forti si fa sentire in tante sfumature, e a volte in episodi conclamati. È innegabile che fatti come quello di Dhaka creino una atmosfera di sospetto, ansia, insicurezza e paura, ma si tratta di azioni messe in atto da una piccolissima minoranza, anche se dirompente nelle sue manifestazioni».
Preoccupante, però.
«Senza dubbio, soprattutto perché si arriverà a un punto di reazione dove al razionale si sostituirà un atteggiamento emotivo, quindi meno controllabile, e qui i distinguo non troveranno posto. Forse la mia è ingenuità, ma questo conflitto non esisteper i poveri di questo paese che devono pensare a come vivere alla giornata. Accetto che ci siano realtà di disperazione che possono generare terrorismo, ma nessuno riuscirà a convincermi che non ci sia una manipolazione delle persone che vi prendono parte. E la manipolazione delle persone è sempre esistita, a sostenere scopi che spesso non erano né dichiarati né evidenti».
Si dice che i terroristi di Dhaka siano figli di famiglie «bene»…
«Sì, studenti con preparazione universitaria. In alcuni casi mancavano dalle famiglie da sei mesi, un anno, mi pare di aver letto… Dove sono stati tutto questo tempo?».
Di fronte a tanto orrore non ci si può rassegnare, ma cosa si può fare?
«Innanzitutto pregare. Ieri (domenica, ndr) qui lo si è fatto per le vittime dell’attentato in tutte le chiese del paese. Il governo ha indetto due giorni di lutto nazionale. Questa sera, il Nunzio apostolico celebrerà una messa in suffragio di tutte le vittime. Una preghiera è necessaria perché il Signore ci tenga una mano sulla testa e ne metta una anche sul cuore di chi si ripromette di creare tanta sofferenza, a vittime inermi».
VALENTINA ZANELLA