Crescendo a Majano ho spesso avvertito la presenza invisibile di qualcosa, che permeava i momenti più insospettabili della mia esistenza, una sensazione che era presente tra le pieghe delle mie giornate, nelle situazioni in cui non ci si aspetta che ci possa essere altro se non una quotidiana semplicità. Vivere con questo dubbio, dello spettro di qualcosa che apparentemente non c’è, non è facile, può diventare un’ossessione che può impedire di godere dei piccoli momenti di felicità che ci offre la nostra vita. Ma come si fa a capire se una sensazione che sentiamo estremamente presente, ma al contempo è anche invisibile, è davvero reale?
L’ormai celebre racconto di David Foster Wallace recita così:
Un vecchio pesce rosso incontra due giovani e domanda loro: “Ehi ragazzi, com’è l’acqua?”
Quelli restano interdetti e uno dei due chiede all’altro: “Che diavolo è l’acqua?”
Sono partito a fine luglio di quest’anno per trascorrere un anno di Servizio Civile in Etiopia. Il Servizio Civile Universale all’estero è un’opportunità che, a tutti i giovani a cui è rivolta, auguro di poter almeno prendere in considerazione. Può rappresentare un’utile attività professionale, una prima avventura al di fuori dei confini italiani, o anche una preziosa esperienza da portarsi per sempre nel proprio bagaglio personale. Ma ognuno può vederci ciò che sente a sé più vicino, una prova di coraggio, una ricerca, una fuga. Il progetto di Servizio Civile in cui sono coinvolto è promosso dalla Caritas di Udine ed appartiene ad un programma più ampio, proposto da Caritas Italiana che coinvolge progettualità in diversi Paesi dell’Africa: Ruanda, Gibuti, Senegal, Sierra Leone e appunto l’Etiopia. Tutti questi progetti hanno un obiettivo in comune, ovvero il contrasto alla povertà e alle diseguaglianze in Africa attraverso il sostegno alle persone fragili.
In Etiopia, le attività hanno sede in un’area che ha come centro Emdibir, una piccola cittadina in via di sviluppo della parte centro-meridionale del Paese, nella regione del Guraghe, ad un’altitudine che si aggira sui 2000 metri. Questo grazie all’importante collaborazione che già da diversi anni esiste tra l’Arcidiocesi di Udine e l’EmCS (Emdibir Catholic Secretariat) un’ente ecclesiastico che può essere equiparato alle nostre Caritas Diocesane. È una struttura che, proprio grazie alle collaborazioni con numerosi partner come la Caritas, si occupa di sostenere progetti in diversi ambiti, soprattutto sociali, per integrare il servizio statale, che soprattutto nelle zone rurali come quella di Emdibir, è molto carente. Tali collaborazioni sono state messe a dura prova dall’avvento della pandemia che, con le limitazioni degli spostamenti transfrontalieri, ha inevitabilmente colpito le relazioni a lunga distanza. Nonostante questo, io, Michela e Luigi, i miei compagni di viaggio, siamo stati i primi, post-pandemia a poter rinvigorire e riprendere il rapporto diretto tra la Caritas di Udine e l’EmCS che si è da sempre contraddistinto per il suo carattere di vicinanza fraterna.
L’EmCS è strutturato in dipartimenti che si occupano di settori diversi. Il dipartimento idrico gestisce l’attuazione di progetti per garantire l’accesso all’acqua alle comunità dei villaggi anche nelle zone più remote dell’Eparchia di Emdibir. Il dipartimento agricolo si occupa di potenziare le competenze delle persone locali, utili per la coltivazione e l’allevamento, che sono le loro uniche attività di sussistenza. Grazie anche all’Università di Udine, è stata garantita la distribuzione di input agricoli, non solo sementi e attrezzature, ma soprattutto occasioni di formazione specifica per lo sviluppo rurale. L’EmCS copre anche un servizio di istruzione gestendo numerose scuole primarie e dell’infanzia e un college professionale, il St. Anthony Catholic Technical College in cui sono attivi corsi di sartoria, informatica, carpenteria metallica e falegnameria. Il senso delle strutture scolastiche gestite dall’EmCS non è soltanto quello formativo, ma, soprattutto ai livelli più bassi, quello educativo, offrendo in molti casi a bambini e ragazzi, un’alternativa alla vita di strada, con attività extrascolastiche come occasioni di confronto e rafforzamento della propria identità personale. Infine, il dipartimento sanitario coordina la decina di cliniche che offrono prestazioni sanitarie in un raggio di oltre 70 km. Tutte gestite grazie all’impegno e alla preparazione di diverse congregazioni di suore, sono una rete fondamentale per assicurare a molte persone che vivono nei villaggi più remoti, una copertura sanitaria di base. Ultimamente, ed è il progetto in cui sono impiegato in prima persona, è stato avviato un centro di distribuzione dei farmaci, per facilitare l’approvvigionamento delle strutture sanitarie gestite dall’Eparchia.
Qui ad Emdibir vivo nella Guest House “Selam Bet” (Casa della pace), condivido la mia quotidianità con la comunità composta dai colleghi dell’EmCS e dai parroci dell’Eparchia, passando i momenti conviviali nella casa del vescovo di riferimento Mons. Musiè Ghebreghiorghis. Esiste un’unica strada asfaltata che attraversa il paese, incorniciata da numerose e basse costruzioni dai tetti in lamiera, erette con la tecnica tradizionale secondo la quale un intonaco spesso decorato da vistose crepe, lascia ormai intravedere una struttura di pali di eucalipto che sostengono muri di terra e paglia. Anima le vie del paesino, un viavai di persone affaccendate nello svolgere commissioni per la propria piccola attività di commercianti, meccanici, o contadini. Ad essi, forse più consistente, si accosta un brulicante traffico di animali: soprattutto capre, mucche e asini, chi intento a cercare qualcosa da mangiare, chi a trainare pesanti carretti carichi di taniche d’acqua o altri prodotti essenziali.
Percorrendo le vie di Emdibir, scorgo un tempo che ho vissuto solamente negli antichi racconti di mia nonna. Il tempo della centralità della Chiesa, come punto di riferimento e luogo di espressione della comunità, in cui i preti si fanno rappresentanti e difensori dei bisogni della gente, un aspetto che si sta perdendo in Friuli, se non lo si è già fatto. Il tempo della preziosità dell’animale, perché risorsa essenziale per la famiglia, fonte di sostentamento, ma anche sinonimo di lavoro e sacrificio. Il tempo della Natura, madre che governa e dà la vita, che scandisce le esistenze con il suo ciclo e ricolora la speranza con il suo rifiorire. Il tempo del Tempo, non quello confinato sui polsi degli occidentali, ma quello che si vive, che si apprezza, che si usa e non si spreca, quello che è un dono e si conserva e non ti sfugge tra le dita.
Forse non lo sanno ancora i numerosi bambini di diverse età che, appena in grado di farlo, scendono dalle schiene delle proprie sorelle di poco più grandi e poggiano i nudi piedi sull’erba, sulla terra, sull’asfalto. Corrono, scherzano, giocano, si avvicinano curiosi, sempre accompagnati da un contagioso sorriso. Una gioia e una vitalità che è impossibile non percepire e da cui è difficile non venire coinvolti. Osservandoli una domanda sorge spontanea: come fanno, in un contesto così precario, di estrema povertà, ad esprimere una tale gioia e felicità? Lo scrittore e psicologo Alberto Simone a questo riguardo, espone una chiara e semplice riflessione, che mette in luce i tre ingredienti della felicità. La prima di queste tre condizioni di base è il senso di appartenenza. Questi bambini possono contare sulla certezza di appartenere al loro villaggio, alla loro tribù, alle loro famiglie. Il secondo elemento è la condivisione, essi, come d’altro canto i loro genitori, sono messi nella condizione
in cui la condivisione non è solo un valore, ma una necessità. Il terzo e ultimo ingrediente è la dimensione del dare, lo spirito di servizio, di essere utili agli altri e non solo a sé stessi. Se rapportassimo questi tre fattori con il nostro modo di vivere, potremmo non sorprenderci poi così tanto, nell’osservare che sul nostro viso il sorriso compaia ben più raramente che su quello di molti bambini etiopi delle zone rurali.
Ma l’Etiopia non è solo questo. È un Paese composto anche da grandi contraddizioni. Incontrando lo sguardo assente di un bambino Gummuz, dagli occhi gialli di malaria e dalla pancia gonfia di fame, non si può che rimanere impietriti sentendo una vertigine che blocca non solo i movimenti, ma anche il cuore. I Gummuz sono una popolazione proveniente dal Sud Sudan, si sono stanziati in alcune zone dell’Etiopia in seguito al loro assoldamento come mercenari da parte dell’imperatore Menelik. Ovunque si siano fermati, essi non hanno goduto di buona integrazione, e le loro condizioni di vita sono veramente estreme. Incrociando lo sguardo di uno di quei bambini, in quell’attimo in cui il tempo si è fermato, mi sono raffigurato la mia vita e la sua come due linee, che si sono incontrate in quell’unico istante, per poi non intersecarsi più. Lui sarebbe tornato alla sua capanna, e contando sulla clemenza della sua malattia e con il supporto della vicina clinica di Galiye Rogda, avrebbe continuato a lottare per la sopravvivenza. Io invece sarei tornato al mio comodo alloggio e successivamente in Italia. L’EmCS sta facendo tanto anche per quella popolazione, andando al di là di etnia, lingua e religione. Recentemente è stata inaugurata una scuola per permettere soprattutto ai bambini Gummuz di ricevere un’istruzione adeguata e non ripercorrere le vite che hanno vissuto i loro genitori.
L’Etiopia non è solo questo. È un Paese in forte sviluppo, economico e sociale. Non solo la capitale Addis Abeba, ma anche i piccoli centri crescono a vista d’occhio, sorgono edifici, nascono attività, si muove il mondo del commercio. Tutto ciò ad una velocità incontrollata e veramente sorprendente. L’Etiopia dispone di numerose risorse e i Paesi occidentali lo sanno bene. La guerra attualmente in corso, che interessa le parti settentrionali, tra l’esercito federale governativo e quello della regione del Tigray, proprio in queste settimane sta raggiungendo un momento critico, con la proclamazione dello stato di emergenza nazionale. Il ruolo dei Paesi occidentali viene visto dal governo etiope molto spesso come un’interferenza non richiesta, causando visibili attriti nei rapporti tra Etiopia, Stati Uniti ed anche alcuni Paesi europei. Non è mia intenzione addentrarmi in questo argomento, lasciandolo ai media internazionali che purtroppo spesso si servono di fonti alquanto discutibili.
Giungo alle conclusioni, riprendendo l’efficace immagine di Wallace citata nelle battute iniziali. Un pesce non può avere coscienza dell’acqua, proprio perché ne è immerso, non ha avuto alcuna esperienza all’infuori di essa. Allo stesso modo, noi siamo immersi nella nostra cultura e nelle nostre convinzioni al punto da non poter riconoscerle come tali, o addirittura di non accorgerci della loro presenza. A volte può rendersi necessario un cambio di prospettiva, guardare le cose dall’esterno può farci rendere conto della loro reale natura o addirittura farci scoprire l’esistenza di qualcosa che nemmeno immaginavamo, ma che ci accompagnava ogni giorno della nostra vita. Cos’è quella cosa che all’inizio riuscivo solamente a percepire, ma di cui io stesso non ero sicuro dell’esistenza? È la stessa cosa espressa tramite evocative immagini nella canzone “Nascosta in piena vista” del gruppo “I cani”. Non credo di essere giunto ad una risposta esaustiva al mio dubbio iniziale, ma qualcosa in più ora riesco a vedere. Ora posso essere certo che qualcosa di invisibile c’era. Riesco adesso a sentire la preziosità dei piccoli momenti quotidiani, dei giorni trascorsi con la famiglia, e l’importanza di tutto quello che ho. Forse è questo valore quello di cui spesso ci dimentichiamo, che diamo per scontato o che non vediamo, perché ne siamo immersi.
Luca Masone